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La sostenibilità nella valle d'Ampezzo

La proprietà collettiva ha nei secoli garantito un equo accesso alle risorse da parte della comunità: una gestione del territorio che puntava a conservare e migliorare le condizioni di vita anche delle generazioni future.

I pascoli d’alta montagna e i boschi costituivano la proprietà comune: sui pascoli i Regolieri potevano portare a pascolare solo gli animali che trascorrevano l’inverno nelle loro stalle; mentre il bosco forniva una fondamentale materia prima, il legno.

Alle singole famiglie appartenevano le abitazioni, i prati di fondovalle e i campi, dove poter falciare l’erba per il bestiame e coltivare ortaggi e altri prodotti agricoli.

La famiglia doveva procurarsi il sostentamento necessario per sé e per i propri animali in una stagione produttiva molto breve. Nel ripartire la terra doveva valutare i propri bisogni, in modo da ottimizzare i raccolti di fieno, di cereali e di altri prodotti agricoli.
Tutta la produzione agricola era destinata all’autoconsumo familiare.
Due erano i prodotti che la comunità ampezzana doveva da sempre importare: sale dalle saline di Hall in Tirolo, e grano o farina dalla pianura. Già dal XV secolo la Comunità d’Ampezzo gestiva il fóntego, un magazzino per le granaglie, che comprava e rivendeva con l’unica maggiorazione delle spese: ai poveri e in caso di carestie il grano veniva distribuito gratuitamente. Tra i cereali si coltivavano orzo, segala e avena, resistenti al freddo. Pochi erano i campi di frumento, mentre da sempre si coltivavano lino e canapa. La fava fu alimento essenziale per le genti ampezzane fino all’inizio dell’Ottocento. Nel 1807, per interessamento del governo bavarese, venne introdotta la coltivazione della patata, che sostituì quella della fava. Per garantire la fertilità della terra venne adottato un sistema di rotazione delle colture. Il primo anno si seminava l’orzo, poi il grano, la fava e infine le patate. Il campo non veniva più arato per quattro o cinque anni e ritornava prato.